Proposte concrete per una necessaria riforma fiscale

 

 

Pubblichiamo la relazione introduttiva del presidente avv. Antonio Damascelli al congresso UNCAT di Milano, 28 settembre 2018

Autorità sigg. Magistrati, carissimi Colleghe e Colleghi,

prima di dar corso alla mia relazione, mi sia consentito rivolgere un pensiero ai nostri illustri Amici prof. avv. Pietro Adonnino e avv. Andrea Ballerini che, purtroppo, non sono più con noi. Essi hanno dato lustro all’Unione ponendone le prime fondamenta ed adoperandosi con grande spirito di servizio e sapienza professionale.

Il loro ricordo ci sia caro.

1. Celebriamo questa Assise in una fase della storia politica italiana in cui la questione fiscale sta ricevendo il massimo grado di attenzione: per la funzione primaria della fiscalità, identificabile nell’acquisizione dei flussi di entrate stabili e necessarie al Paese, per le modalità operative attraverso le quali si realizza quella funzione, per le ricadute che la gestione della leva fiscale, per quanto può riguardare noi avvocati, ha sul fronte del processo, ove sono in gioco cifre di grandissimo interesse per il Paese e per i contribuenti. Non è un mistero, infatti, ne abbiamo discusso continuamente in tutte le sedi e le occasioni, che il valore economico delle liti pendenti solo innanzi alla Corte Suprema di cassazione ormai sfiora i cinquanta miliardi di euro, ricchezza comunque sottratta al circuito economico.

Questo congresso giunge nel mezzo di un’attività ̀intensa del Consiglio e del comitato dei presidenti, volta a nutrire di iniziative, proposte, incontri e dibattiti il cammino espansivo di Uncat nella dialettica sociale ed a renderla interlocutrice gradita ed ascoltata da parte delle altre associazioni e delle istituzioni.

Nel programma che ha preceduto le elezioni per il rinnovo degli organi statutari ci eravamo impegnati a promuovere incontri e iniziative utili con le istituzioni, a sottoscrivere protocolli di intese con le medesime.

Così è stato e l’obiettivo può ritenersi raggiunto.

Interlocutori di rilievo istituzionale sono stati la Direzione Generale di Finanza e quella della Giustizia Tributaria, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e l’Associazione Magistrati Tributari. Con questi organismi Uncat ha sottoscritto protocolli intesi a sviluppare la reciproca collaborazione in tutti i campi opportuni ed utili per la difesa dei contribuenti e la tutela del superiore interesse collettivo ad una migliore Giustizia Tributaria.

Le iniziative concrete svolte sono a tutti voi note e non sto qui ad elencarle. Indico in via esemplificativa gli eventi dedicati ai temi dei rimborsi Iva e delle spese processuali, che hanno richiesto un lavoro di ricerca di dati statistici per poter confrontare l’orientamento della giurisprudenza locale rispetto a quella di legittimità. Questi eventi sono stati realizzati grazie alla laboriosità ed alla preparazione qualificata dei consiglieri e dei presidenti appartenenti alle camere locali ove i seminari si sono svolti.

A tutti gli altri Consiglieri indistintamente va il mio plauso e il ringraziamento per l’impegno e la qualità professionale profusi in tutte le iniziative assunte nel corso della consiliatura.

Personalmente ho cercato di indirizzare l’attività consiliare all’insegna del criterio di generale confronto e condivisione del collettivo, di fare un lavoro di squadra, considerandomi, come scritto nel programma, primus inter pares e devo dare atto che il principio ha dato e continuerà a dare i suoi lusinghieri risultati.

Il Consiglio, in attuazione degli impegni programmatici, ha tenuto delle sedute itineranti presso le camere locali (è stato ricevuto dalla Camere di Napoli e Milano, mentre a fine ottobre la riunione si terrà presso la sede del CAT Veneto) registrando una piena sintonia con la gestione dell’attività dell’organo apicale.

Frutto del lavoro collettivo è stata la mozione inviata al Congresso Nazionale forense che si terrà a Catania l’entrante settimana.

La mozione, che ha ricevuto ben 146 adesioni, tra le più alte, come vi è noto è stata preparata, discussa ed approvata in riunione collegiale dal comitato scientifico e dal comitato dei presidenti. Un suggello della comune ispirazione e della volontà collegiale. Un particolare apprezzamento va rivolto da parte mia alla Camera di Milano, alla presidente Angela Monti, al suo comitato scientifico e ai consiglieri Stefano Carmini e Raffaella D’Anna perché sono stati in grado di allestire mirabilmente il V Congresso che oggi celebriamo e di predisporre un parterre de roi che animerà il convegno scientifico di domattina.

La giuristica nazionale di eccellenza nobiliterà i nostri lavori e sono certo che i risultati saranno superiori alle attese.

Permettetemi, infine, di rivolgere un caloroso e meritato ringraziamento a Lalla D’Anna per la puntualità, l’accortezza e l’amore con cui ci ha guidato qui oggi, ideale traguardo di tappa del suo percorso personale all’interno del Consiglio direttivo nazionale, in cui ha profuso le sue migliori energie intellettuali, prodiga di apporti puntuali che hanno contribuito ad arricchire la nostra Unione.

A questo punto desidero sottolineare il rilievo riconosciuto alla nostra Unione non solo dagli organi istituzionali ed associativi ma anche dalla stampa nazionale specializzata, la quale ha ospitato i nostri commenti integrali e si è dimostrata interessata a dare diffusione di eventi importanti – penso ai seminari nazionali sui crediti d’imposta e sulle spese del processo.

Aggiungo un grande riconoscimento al prezioso ed encomiabile supporto della responsabile della comunicazione dottoressa Claudia Morelli, senza il cui aiuto Uncat non avrebbe potuto veicolare la propria attività e, segnatamente, esprimere all’esterno e con grande risonanza la propria posizione sui grandi temi fiscali.

Uncat ha avuto dignità di ascolto, per la prima volta, nella giornata di inaugurazione dell’anno giudiziario tributario nell’Aula magna della Suprema Corte e sono certo che questa ospitalità abbia segnato e segnerà la cifra del peso di Uncat nell’interpretare la dinamica dei fatti fiscali.

Il numero delle Camere locali associate è cresciuto: hanno aderito all’Unione, infatti, in questa consiliatura le Camere di Pescara, Marche, Lamezia Terme, Agrigento e Friuli, a testimonianza del rafforzato impegno associativo dei colleghi e del senso di responsabilità sociale dell’Avvocatura specialistica.

Uncat è oggi una realtà nel panorama nazionale e se nel programma ci eravamo proposti di destare l’attenzione e la considerazione delle istituzioni nei nostri confronti possiamo dire che l’obiettivo è stato raggiunto e che Uncat non deve legittimarsi se non con la qualità del proprio lavoro.

Abbiamo lavorato molto ma moltissimo e di più delicato si dovrà fare. Mi riferisco alla necessaria attività che dovrà portarci ad incidere a livello legislativo, mercé il bagaglio della nostra esperienza sul campo, ed ottenere quegli interventi normativi idonei a migliorare norme ordinamentali e processuali.

La soluzione offerta dalla Sezioni unite sulla doppia conforme, ad esempio, non appare convincente e sarebbe opportuno un intervento normativo che consenta la ricorribilità del vizio di motivazione anche in ipotesi di doppia conforme.

Del pari, lo sbocco in camera di consiglio anche dei ricorsi in materia tributaria richiederebbe dei correttivi, in considerazione della paradossale situazione che verrebbe a crearsi se anche i gradi di merito fossero stati celebrati nel segreto della camera di consiglio.

Sarò presente, in rappresentanza della nostra Unione, ai prossimi congressi delle Camere civili in programma a Roma il 18 e 19 ottobre per partecipare ad una tavola rotonda con le altre associazioni maggiormente rappresentative ed al Congresso degli avvocati amministrativisti in programma a Bologna il 20 ottobre.

La considerazione che riceviamo, oltre che dalle istituzioni, anche dalle associazioni consorelle sono la migliore testimonianza della qualità della nostra attività.

Menzione a parte merita la Scuola di Alta formazione, il cui master biennale è alla quarta edizione. La scuola, attiva dal 2011, destinata a preparare gli avvocati specialisti, si avvale di giuristi di eccellenza, accademici e avvocati di matura esperienza, sotto l’encomiabile regia del direttore avv. Michele Di Fiore e della condirettrice avv. Fabiola Del Torchio.

La scuola che ha formato ad oggi quattrocento allievi, ha tre sedi principali (Roma, Milano e Napoli) e 14 sparse sul territorio e collegate settimanalmente in videoconferenza. Essa è aperta agli avvocati ma ospita anche funzionari dell’Amministrazione finanziaria e ufficiali della Guardia di Finanza.

A Michele Di Fiore e Renato Torrisi quali membri del consiglio di amministrazione di Gnosis, che raggruppa oltre i tributaristi anche le camere penali, i lavoristi e i familiaristi, va, dunque, il nostro plauso per la loro abnegazione e professionalità.

2. Il tema congressuale prescelto esprime la concezione di fondo che Uncat ha del sistema fiscale e la sua filosofia operativa: Proposte concrete per una necessaria riforma fiscale. Vogliamo essere pars construens, non solo destruens del dibattito poiché riteniamo che le criticità e le aporie in generale del Fisco, a cominciare da quelle ordinamentali, siano soprattutto di funzionamento e non solo di struttura, siano non solo consustanziali al sistema tributario ma anche di gestione del tributo.

Un sistema che non sembra aver fatto passi da gigante né essersi migliorato, se è vero come è vero che le criticità persistono e sembrano richiamare l’idea dell’eterno ritorno dell’uguale.

“Semplificare il groviglio, ridurre il numero, abbassare la scala delle aliquote delle imposte sul reddito è la condizione essenziale affinché gli accertamenti cessino di essere un inganno, anzi una farsa. Affinché i contribuenti siano onesti, fa d’uopo innanzitutto sia onesto lo Stato. Affinché si ricostruisca è necessario che i cittadini abbiano una speranza. Affinché si senta la consapevolezza di essere parte dello Stato, della Regione, della Provincia, del Comune occorre che lo stato, la regione, la provincia, il comune prelevino soltanto la parte del prodotto comune che gli enti pubblici, insieme con i cittadini, hanno contribuito a creare. Se i cittadini spereranno di nuovo che del prodotto comune la parte maggiore ricomincerà a restare legalmente a loro disposizione, essi non si sforzeranno più a tenerla per sé per vie illegali, con la frode fiscale. Oggi, la frode è provocata dalla legge. Non v’ha dubbio che se le leggi vigenti fossero osservate- quelle vigenti, all’infuori di quelle annunciate per l’avvenire – le sole imposte sul reddito assorbirebbero dal 4 al 75 per cento del reddito dei cittadini. Se alle imposte sul reddito aggiungiamo quelle di successione, del registro e bollo, sull’entrata e suoi consumi, noi giungeremmo, se qualcuno tentasse di fare il conto, a percentuali grottesche, che andrebbero probabilmente dal 30 al 200 e forse più per cento del reddito. In materia di imposte, la legalità ha ucciso non la giustizia ma anche il buon senso. La legge è violata perché è assurdo osservarla.” (L. Einaudi, saggio su L’imposta patrimoniale ed. La città libera 1946).

Noi riteniamo che il sistema fiscale, ci riferiamo segnatamente al sistema ordinamentale, poggi ancora, nonostante l’emanazione dello Statuto dei diritti del contribuente nel 2000, su un’impalcatura composta più dalle regole che dai principi.

Lo Statuto appariva come l’impianto che rompeva col metodo casistico, introduceva principi ordinatori posti a presidio dei comportamenti sia del Fisco che della parte privata e, quindi, consentiva – come direbbe Zagrebelsky – un dialogo oggettivo tra i valori ovvero tra i principi in quanto valori secolarizzati.

Lo Statuto del contribuente non può essere assunto a parametro costituzionale e, costituendo legge ordinaria, recava in sé sin dal suo nascere il carattere polemogeno. Purtroppo lo Statuto non è stato in grado di risolvere (probabilmente non lo si è voluto utilizzare per risolvere) due grandi problemi: quello della certezza del diritto (se si debba o possa reclamare la certezza del diritto e in quale senso) e quello della codificazione legato all’opzione legislazione/giurisdizione. Vale a dire, per riprendere ancora Zagrebelsky, se possa dirsi più mite un ordinamento fondato sulla centralità della giurisdizione ovvero della legislazione.

La certezza del diritto, non identificabile nell’assolutismo giuridico, nel dogma o nel bene supremo proprio della società moderna di matrice giacobina, ancorché abbia assolto storicamente alla funzione di levatrice di quell’assolutismo attraverso la conquista del potere politico da parte del ceto borghese, ha tre elementi identificativi: la chiarezza del testo, la sua fissità e la sua conoscibilità.

A queste finalità sembrano assicurare dignità gli articoli 2 e 3 dello Statuto, in quanto concernenti la chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie e l’irretroattività (fissità) delle norme tributarie.

Alla ricerca della certezza del diritto è, altresì, preordinato il testo dell’art. 3 comma 1 della legge delega n. 123/2014 (“Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1 e con particolare osservanza dei principi e criteri generali di delega indicati nelle lettere a), b) e c) del comma 1 del medesimo articolo 1, in funzione del raggiungimento degli obiettivi di semplificazione e riduzione degli adempimenti, di certezza del diritto nonché di uniformità e chiarezza nella definizione delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive dei contribuenti e delle funzioni e dei procedimenti amministrativi, norme dirette a: a) attuare una complessiva razionalizzazione e sistematizzazione della disciplina dell’attuazione e dell’accertamento relativa alla generalità dei tributi;”). In attuazione della delega è stato emanato il d.lgs. n. 160/2015 in tema di stima e monitoraggio dell’evasione fiscale ma privo di disposizioni concernenti modalità, misure e criteri di salvaguardia della certezza del diritto.

Il master interpretativo del principio di certezza del diritto, derivante dalla giurisprudenza comunitaria “esige che la situazione fiscale del soggetto passivo, con riferimento ai diritti e agli obblighi dello stesso nei confronti dell’amministrazione tributaria, non possa essere indefinitamente rimessa in discussione” (Corte di giustizia UE 11.4.2018 n. 532). Purtroppo, sappiamo tutti che la certezza del diritto – storicamente funzionale, come già detto, al legalismo sovranistico fino alla formulazione del capo di accusa del positivismo giuridico, secondo cui la legge aveva fagocitato il diritto e la legalità aveva depotenziato la legittimità – sia pur declinata come certezza dei rapporti giuridici, molto spesso è stata inquinata dalla ragion di Stato, dalla difesa dell’interesse fiscale.

Molteplici sono le applicazioni concrete: dalla prescrizione dei termini in materia di riscossione al raddoppio dei termini di accertamento o all’isolamento del contraddittorio endoprocedimentale a fattispecie tipizzate.

Qui entrano in gioco i principi e, dunque, il secondo tema della codificazione e del rapporto giurisdizione/legislazione.

Affinché si esplichi un sostanziale dialogo tra valori, cioè tra principi in quanto valori secolarizzati, (affinché si realizzi quel che Zagrebelsky ha definito il diritto mite) è più fondante un ordinamento basato sulla centralità della legislazione ovvero sulla centralità della giurisdizione?

Mentre la legge esige di essere obbedita senza essere interpretata, i principi devono essere interpretati perché elastici.

Qual è la ricaduta di questa dicotomia nel sistema tributario e qual è il riscontro degli operatori (giuristi, pratici, giudici) alla luce della quotidiana esperienza?

Primato del giudiziario o primato del legislativo?

Se può dirsi, nonostante la genealogia delle fonti contenuta nell’art. 1 delle preleggi, che la legge non costituisca l’intero diritto disponibile e che accanto alla legge debba essere annoverata tra le fonti del diritto la giurisprudenza, con derivata conseguenza e presa d’atto che il dato evidente del postmoderno sia spostato – come osserva Paolo Grossi – dal nomoteta (spesso impotente e sordo) all’interprete (soprattutto al giudice), deve dirsi che l’interpretazione è il momento più rilevante perché affronta il caso concreto e determina la disciplina della fattispecie.

Sembrerebbe, pertanto, che il primato del giudiziario sia idoneo a risolvere casi pratici ed a dare un senso al diritto positivo. Tanto più che in un ordinamento caratterizzato da estrema mobilità, ogni comando o precetto, sempre per dirla con Paolo Grossi, tende a relativizzarsi col conseguente liquefarsi della sua terribilità potestativa.

Ho l’impressione che nell’ordinamento tributario, ex positivo iure, la regolamentazione casistica, per regole e non per principi, determini il prevalere della funzione giurisdizionale e che la giustizia tributaria rechi in sé gli stessi connotati che un grande giurista come Mario Nigro assegnava alla giustizia amministrativa, da lui qualificata come un prodotto storico e non una costruzione razionale.

Questo Autore (Giustizia Amministrativa, Mulino 1983, prefazione alla III edizione), sottolinea che “l’opera creativa della giurisprudenza nella fissazione dei lineamenti della giustizia amministrativa vada attribuita non tanto e non solo all’insufficienza del diritto scritto quanto proprio dalla storicità e problematicità di tale giustizia….. la giurisprudenza non offre sistemi o punti di certezza ma molto spesso anch’essa ha dubbi, contrasti o difformità di orientamenti”.

Egli arriva a qualificare “creativa” la giurisprudenza.

Gli fa eco Massimo Severo Giannini che nel Discorso sulla giustizia amministrativa parla di vere e proprie scelte creative, delle costruzioni del sistema da parte dell’operosità giurisprudenziale, la costruzione imposta dalla giurisprudenza è ormai una costruzione normativa e, pertanto, dobbiamo accettare come diritto positivo vigente quello posto dalla giurisprudenza.

In campo tributario per fortuna le scelte creative restano isolate ad istituti episodici (pensiamo, per un istante, solo alla presunzione dei distribuzione dei maggiori utili extra-bilancio nelle società di capitale) mentre è forte il carattere di giudizialità impresso all’intero sistema dalla elaborazione pretoria della giurisprudenza tributaria.

L’elemento di confronto è, dunque, rappresentato dai principi generali che nutrono i fondamenti delle opzioni ermeneutiche della giurisprudenza e giungono a determinare la prevalenza di quei principi (id est del diritto vivente) sulle regole legislative.

Secondo la dottrina amministrativa (in termini F. Merusi, Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, 2007), i principii generali non si limitano a dialogare con la legge ma tendono ad imporsi alla legge in base alla loro duttilità, alla loro forza espansiva, alla loro capacità orientativa. Si assiste ad un fenomeno di integrazione o manipolazione della legittimità amministrativa.

Nel diritto amministrativo il punto di approdo di questi concetti è costituito dalla legge delega n. 69 del 18 giugno 2009, il cui art. 44 contiene la premessa di fondo della futura regolamentazione, “al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele.”

I primi due articoli del codice del processo amministrativo sono dedicati l’uno al principio di effettività (“La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”) e l’altro al principio del giusto processo (“Il processo amministrativo attua i principi della parità’ delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione. Il giudice amministrativo e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo.” ).

3. Può dirsi che il processo tributario, come oggi strutturato, attui questi principi?

Il principio del contraddittorio è probabilmente quello meno tutelato.

La mancanza di una disciplina generale (per principi) ha fatto sì che, si sia sviluppato un immenso contenzioso al fine di accertare se il contraddittorio dovesse essere previsto:

a) anche per le fattispecie diverse da quelle tipiche;

b) per i tributi armonizzati;

c) all’interno dei tributi armonizzati, soltanto nei casi in cui il contraddittorio avesse rivelato elementi concreti tali da sterilizzare l’accertamento.

È a tutti noto quali siano stati gli orientamenti della Corte, che si è dovuta pronunciare più volte a sezioni unite per rivedere non tanto o non solo se stessa quanto l’effettività della disciplina del caso concreto.

Nel programma avevamo ben fotografato le ricadute sul sistema nel momento in cui, facendo nostra l’analisi della dottrina di eccellenza osservavamo che “La crisi della fattispecie è speculare alla crisi della previsione legislativa. La mancanza della norma che disciplini il caso concreto, la mancata descrizione di quest’ultimo fa sì che la legge non sia più autosufficiente. Il sillogismo fatto-norma-precetto viene meno e un nuovo dogma della completezza viene sostituito al vecchio. Dalle norme si passa ai valori: la completezza dei valori subentra alla completezza della legge, sicché il giudice non applica più la legge ma il diritto e i valori.”

L’idea della codificazione, ma ne parlerà da par suo il prof. Maurizio Logozzo, deve andare in questa direzione e rintracciare principi unificanti, omologanti che favoriscano il lavoro dell’interprete e determinino orientamenti tra loro coerenti.

Il vuoto normativo, il deficit di una regola unificante e prodromica al sorgere del procedimento è contraddittorio con tutti gli interventi normativi volti a ricercare la composizione della lite oppure a prevenire la stessa attività accertatrice.

Allorquando, infatti, si incentivano istituti quali l’accertamento con adesione, la conciliazione e la mediazione, che intervengono sempre dopo la manifestazione dell’interesse fiscale o addirittura nel corso del processo, non ha una spiegazione logica il perché non si favorisca la terapia preventiva, atta ad arginare il male.

Il contraddittorio preventivo generalmente esteso non solo non ha costi economici ma favorirebbe la compliance e ridurrebbe quelli a carico del contribuente.

Mi chiedo se sia coerente elaborare misure deflattive quali la mediazione, il procedimento di accertamento con adesione e la conciliazione, tutte successive alla notifica degli avvisi, e non pensare ad un contraddittorio preventivo che risolverebbe sul nascere le criticità della posizione fiscale del contribuente che l’Amministrazione vorrà affidare agli avvisi di accertamento (così come avviene per i preavvisi di irregolarità). Questa incongruenza o vischiosità di sistema ci porta a reclamare interventi funzionali a rendere più flessibile ed elastica la macchina burocratica.

Vanno, pertanto, salutate con favore le voci che parrebbero orientare le forze di governo a costruire un sistema incentrato a regime sul contraddittorio e sul confronto.

Al tempo stesso appare ragionevole, utile sia per il Fisco che per i contribuenti estendere la conciliazione in tutti i gradi e fasi del processo mentre appare irragionevole limitarla al secondo grado (così come appariva irragionevole, prima della modifica, isolarla al primo grado).

Adiacente a questo v’è l’argomento della notifica dell’avviso di accertamento ante tempus.

Mi chiedo se sia una conquista civile che si debbano percorrere tre gradi di giurisdizione, impegnare uomini e mezzi per stabilire se il rispetto del termine interlocutorio per notificare l’avviso di accertamento dopo la notifica del pvc sia omologo o si differenzi a seconda che la verifica sia avvenuta a tavolino o nella sede del contribuente.

Il deficit economico del Paese non aumenterà se si stabilirà un unico termine, perché questo criterio risponde a canoni di ragionevolezza (nozione che riempie di sé la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e patrimonio della cultura giuridica e storica della Corte Costituzionale che ha fatto ricorso a questa nozione nell’applicazione dell’art. 3 Cost.).

Aggiungo che non dovremmo meravigliarci che la Corte Suprema di cassazione resti ingolfata se basta un nonsense per metterne in crisi l’organizzazione.

Parità delle parti.

Non scopriamo nulla di nuovo se diciamo che il processo è squilibrato e non assicura la parità delle armi.

Indubbiamente il processo nel corso degli anni ha subito interventi di sostanza (penso solo alla conciliazione in appello) ma resta il gap provocato non solo dalla regola del processo, dalla norma processuale, ma anche dalla migrazione nel processo di regole che ne stanno fuori perché lo precedono e ne minacciano l’equilibrio.

Punto primo: le presunzioni.

La disciplina e l’utilizzo nel processo vanno rivisti: le presunzioni sono legali oppure semplici. Il diritto vivente ha dato l’avallo alla trasformazione delle presunzioni semplici (lasciate alla prudenza del giudice) in legali assolute, dando spazio ad una prova contraria impossibile, illogica e assurdamente confezionabile. Occorre, pertanto, così come è avvenuto ad esempio per l’abuso del diritto o per il rapporto registro-dirette in materia di plusvalenze, che il legislatore metta ordine e razionalità.

Punto secondo: la prova testimoniale. La prova testimoniale è ormai ammessa anche nel processo amministrativo. La questione si è posta per le dichiarazioni dei terzi raccolte dagli organi investigativi e riportate nei processi verbali.

Con abile espediente dialettico la Corte costituzionale è venuta in soccorso del Fisco escludendo che le dichiarazioni rese da terzi ai verificatori possano ricondursi al regime della prova testimoniale tipica fondata su domane e risposte ed ha stabilito che anche la parte privata possa utilmente avvalersi di dichiarazioni scritte.

L’artificio appare incongruo atteso che, mentre l’Agenzia e la Guardia di Finanza esercitano poteri pubblici previsti dalla legge (la seconda può agire anche in veste di polizia giudiziaria), il privato non può costringere il terzo a rilasciare dichiarazioni sulle stesse circostanze – e, non essendo ammessa la prova testimoniale tipica, al privato non resta che acquietarsi dinanzi alla qualificazione del pvc come documento assistito da fede privilegiata destinato, se non attaccato con la querela di falso, a segnare la sorte del processo.

I tempi sono maturi, direi sono urgenti, anche in considerazione della previsione della testimonianza resa in forma scritta nel processo civile, per un riequilibrio dei poteri istruttori.

Il giusto processo.

Questo punto meriterebbe un convegno a parte e non può essere trattato esaurientemente nella relazione.

Desidero, però, esaminare un aspetto dell’art. 111 comma VI Costituzione, secondo il quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

La legge ordinaria (art. 132 c.p.c. e 36 della legge processuale tributaria) stabilisce, nel primo caso, che la sentenza debba contenere la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione e, nel secondo caso, la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto.

Tranne qualche voce dissenziente, è diffuso in dottrina il convincimento che esista una crisi della motivazione (in termini M. Taruffo, Brevi note sulla motivazione della sentenza, Riv. Trim. Dir. e Proc. Civile, 2018 n. 2 da cui è tratta la giurisprudenza citata oltre).

Sapete tutti che il d.l. n. 83/2012 ha rivoluzionato il n. 5) dell’art. 360 c.p.c. sopprimendo la censura per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ammettendola solo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Per le sezioni unite (sent. n. 8053/14) il controllo per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione non è venuto meno ma rimane se il vizio di motivazione è tale da trasformarsi in violazione di legge.

Tale vizio non ricorre se la motivazione rispetta il minimo costituzionale, cioè contiene i requisiti del comma VI dell’art. 111 Cost.

Il minimo non include la sufficienza della motivazione poiché un’insufficiente motivazione non si risolverebbe in violazione di legge e resta sottratta al sindacato di legittimità.

Il minimo costituzionale include anche la contraddittorietà della motivazione?

La domanda si pone in quanto la stessa Corte, ad esempio, nella sentenza n. 23940/2017 ha affermato che il controllo di legittimità sulla motivazione, dopo la novella del 2012, resta circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale ex art. 111 comma 6 Cost., individuabile nelle ipotesi di motivazione apparente, manifesta ed irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa e incomprensibile.

La riflessione si sposta alla ricerca dei casi in cui sorge la violazione di legge per violazione del principio del minimo costituzionale (l’espressione in realtà compare in una lontana sentenza del 1992 (SS.UU. 5888/92), tenuto conto che di minimo costituzionale nell’art. 111 Cost. comma VI non si parla affatto.

Una motivazione insufficiente o contraddittoria, secondo la Corte non determinerebbe la violazione di legge e sarebbe coerente col n. 4 dell’art. 132 c.p.c..

La dottrina (aut. loc. cit.) ha evidenziato l’ossimoro della conclusione, ossia che una motivazione insufficiente sarebbe sufficiente ad esprimere le ragioni della decisione. C’è qualcosa che non va.

Analogamente, si esclude dal minimo costituzionale la contraddittorietà della motivazione ma la si ammette se manifesta ed irriducibile.

In che senso la contraddittorietà è manifesta ed irriducibile?

Personalmente sono portato a ritenere che così argomentando la Corte abbia voluto tentare uno sforzo disperato in termini puramente logici per rimediare alla improvvida riformulazione del n. 5) e salvare il salvabile.

Ora, però, occorrerebbe un ulteriore passo in avanti cogliendo la consustanzialità di quelle attribuzioni (manifesta e irriducibile) nel sostantivo (contraddittorietà). Si deve pervenire cioè al giudizio di identità tra contraddittorietà e contraddittorietà manifesta ed irriducibile ed eliminare l’endiadi.

Resta da chiedersi: è sostenibile l’attuale condizione in cui versa la sezione tributaria della Corte?

Uncat ha già denunciato in tutte le sedi e in ogni occasione di incontro e lo grida oggi a gran voce che la Corte è al collasso: ben oltre la metà dei ricorsi pendenti riguardano la sezione tributaria, che deve smaltire 56mila pendenze, il cui controvalore economico è di circa 43 miliardi di euro. Sono numeri spaventosi che, secondo una proiezione, sono destinati a salire nella permanenza della situazione attuale: nel 205 i ricorsi pendenti saliranno ad ottantamila se non si pone rimedio.

Allo stato non sembrano aver avuto buona sorte i protocolli (quello del 2015 tra il CNF ed il primo presidente della Corte Suprema che ha stabilito un modello di ricorso) né lo sbocco della camera di consiglio.

Ritengo che nessuno abbia la ricetta magica. Uncat, pur dando atto ai giudici della Suprema Corte di svolgere un lavoro immane, ha proposto il raddoppio del numero dei magistrati reclutati in via straordinaria e l’istituzione di una sezione bis.

Un ulteriore strumento proposto, privo di costi, ma semplicissimo è l’introduzione della conciliazione anche nella pendenza del processo in cassazione. Un’ulteriore riflessione delle parti, anche alla luce sia delle modifiche legislative che della giurisprudenza nel frattempo formatasi, potrebbe indurle a conciliare e a far fuori un fascicolo.

Attualmente manca la norma ma la sua introduzione non danneggerebbe nessuna delle parti.

Il numero altissimo delle controversie e l’estensione del numero dei collegi, insieme col reclutamento dei suoi componenti da altre sezioni, non è di aiuto alla funzione nomofilattica della Suprema Corte e determina a volte decisioni non univoche.

Il richiamo e l’applicazione del precedente richiede la corrispondenza delle fattispecie prese a confronto. Lo stare decisis presuppone l’identità del caso risolto con quello già deciso e, soprattutto in caso di motivazione sintetica o di decisione che accoglie o rigetta il ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza, purtroppo il caso precedente non è conoscibile.

3. L’approvazione della legge sulle specializzazioni potrebbe dare una mano al sistema isolando la difesa agli avvocati che abbiano acquisito il titolo di specialista perché in grado di valutare con esperienza la ricorribilità o la resistenza in giudizio. Non appaia come una rivendicazione corporativa, anzi è rispondente ai canoni deontologici che impongono all’avvocato di rifiutare l’incarico o di associare altro collega esperto quando egli sia consapevole di non avere la corretta familiarità con la questione controversa.

5. Mi sia consentito, a questo punto, dopo aver fatto outing, un’ultima osservazione che coinvolge la nostra controparte cioè l’amministrazione finanziaria.

Credo di non sbagliare dicendo che grande merito dell’ingolfo in cassazione è dovuto alla necessitata determinazione degli Uffici di non lasciare impregiudicata ogni chance per ribaltare il verdetto sfavorevole.

Il che può essere indubbiamente comprensibile laddove ragioni di diritto militino a favore del ricorso; meno comprensibile è, invece, l’iniziativa dovuta all’esigenza di evitare che la discrezionalità si rivolga contro il funzionario, danneggiandolo economicamente.

Rischi di controllo della Corte dei Conti, di sanzioni disciplinari, non esclusi cotè penali fanno sì che, al di là di una macroscopica evidenza, gli uffici ricorrano per cassazione le decisioni di merito.

Come ha scritto Luciano Violante sul Corriere della Sera del 15 settembre scorso intrattenendosi su altra materia – la lotta alla corruzione e sui troppi sospetti nei rapporti tra pubblico e privato in tema di appalti – “di fronte al rischio dell’avviso di garanzia, il pubblico funzionario è ragionevolmente indotto all’inerzia, che è l’unico modo per salvaguardarsi. Questa è la ragione principale della lentezza e dell’oppressività della burocrazia, Se ogni scelta discrezionale può apparire frutto di un abuso, chi può dar torto al funzionario che non firma o che chiede innumerevoli documenti?”

Il funzionario deve, invece, essere libero di esprimere la propria valutazione discrezionale in ordine alla pratica e di rispondere solo per dolo o colpa grave ma giammai potrebbe essere chiamato a rispondere ove abbia dato una valutazione di fatto e di diritto rispondente ai suoi canoni ermeneutici.

La vicenda dell’Irap, per fare un esempio concreto è emblematica.

Non dico nulla di nuovo o di dissacrante ma evoco l’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale ricorda che i rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e buona fede. Principio che si impone tanto al primo che alla seconda.

Si tratta di una norma in bianco, come tante altre dello Statuto, ma è disposizione di contenuto etico, che contraddice la notazione iniziale di questa relazione concernente la temuta deriva della giuridificazione della società, cioè la produzione di norme moralmente indifferenti.

Come ha egregiamente dimostrato un insigne giurista (mi riferisco ancora una volta a Zagrebelsky) il superamento dell’antitesi tra equità e legalità – tra Antigone e Creonte – tra un modo di concepire il diritto in termini di flessibilità ed un modo di concepirlo in termini di certezza (l’ideologia ottocentesca della certezza del diritto, posta a fondamento dello statalismo), costituisce un’acquisizione significativa della storia costituzionale dell’ultimo secolo. La vera alternativa non è tra governo delle leggi e governo degli uomini ma tra l’arbitrio e la discrezionalità ben orientata, tra la creatività dissennata e la prudenza feconda.

Noi avvocati siamo investiti di un compito che definirei sacro, garantire la persona e il bene patrimonio da ogni attentato privo della liceità giuridica e lo svolgiamo tenendo scolpito nella mente il principio contenuto nell’art. 1 del codice deontologico “L’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando, nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio”.

Il Consiglio Nazionale Forense celebrerà il Congresso a Catania nell’entrante settimana nella prospettiva del riconoscimento costituzionale dell’Avvocatura.

Il che centuplica l’etica della responsabilità e la nostra funzione sociale, nella considerazione della trasversalità dei valori costituzionalmente protetti che noi curiamo: la persona, la famiglia, l’economia.

Ognuno di noi sia mentore dell’altro.

Avv. Antonio Damascelli